Il tema che si intende affrontare oggi nella rubrica “pillole di diritto” è quello della violenza domestica, un argomento molto complesso - in cui si intrecciano profili criminologici, di diritto penale sostanziale e processuale - e di drammatica attualità.
Basti considerare che, secondo le rilevazioni ISTAT, il numero di chiamate al 1522 non accenna a diminuire e, anzi, è drammaticamente aumentato in concomitanza della pandemia, soprattutto nel periodo del lockdown, mentre è ancor più allarmante il dato relativo ai cosiddetti femminicidi in Italia, che, solo nell’anno 2021, secondo l’Osservatorio sul fenomeno della violenza sulle donne, ammontano già a 83.
Si stima dunque che in Italia, in media, nel solo anno in corso, sia stata uccisa una donna ogni 3,3 giorni: un dato oltremodo allarmante, che deve spingere a una doverosa riflessione.
Ma il femminicidio è il drammatico apice di un fenomeno ancora più ampio e diffuso e che spesso tende ad emergere con estrema difficoltà, ossia la violenza perpetrata nelle relazioni familiari.
Dal punto di vista criminologico, la violenza domestica è dotata di caratteri a sé stanti rispetto alle altre forme di violenza, a causa delle sue origini criminologiche, della sua natura di violenza a carattere relazionale, della mutevolezza in cui tali forme di abuso possono manifestarsi, della difficoltà di emersione delle stesse, nonché delle conseguenze deleterie subite dalle vittime.
La violenza domestica può avere natura coniugale o instillarsi nei rapporti genitori-figli, direttamente o sotto forma di violenza cd. “assistita”.
Inoltre, benché nell’immaginario collettivo la violenza domestica sia costituita quasi esclusivamente da aggressioni fisiche, esistono ulteriori forme di abuso riconducibili a tale fenomeno, come la violenza psicologica, quella sessuale, quella economica, quella digitale, l’inadeguatezza delle cure (incuria, ipercuria, sindrome di Munchausen, etc.).
A fronte della complessa varietà dei casi e delle tipologie di violenza perpetrate all’interno delle mura domestiche, tali fattispecie concrete, con esclusione dei delitti di natura sessuale, per lungo tempo sono state prese in considerazione nel Codice Penale soltanto attraverso il delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) e quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) e, più di recente, quello di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) i quali, a causa dell’estrema genericità della loro formulazione, hanno finito col sanzionare condotte variegate, molte delle quali estranee alla ratio originaria di tali disposizioni, ed ivi ricondotte grazie all’interpretazione evolutiva offerta dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale.
Successivamente il legislatore è intervenuto, per un verso, inasprendo notevolmente il trattamento sanzionatorio di tali reati e, soprattutto da ultimo, creandone di nuovi, quali la costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.), la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (cosiddetto revenge porn, di cui all’art. 612 ter c.p.), il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.), tutti introdotti con l. 69/2019 (nota come “codice rosso”).
Ma le principali difficoltà che vengono in rilievo rispetto a tali forme di violenza non sono costituite dalla loro qualificazione sostanziale, bensì dagli aspetti processuali.
È per tale ragione che, sulla spinta della legislazione sovranazionale ed europea, di innovativo stampo “vittimologico”, sono stati introdotti o perfezionati nel nostro ordinamento taluni strumenti di natura processuale, con il dichiarato obiettivo di tutelare le vittime di violenza non soltanto all’esito del processo, ma anche nel corso dello stesso, nonché nel momento più delicato, che è quello della denuncia.
A tal fine, esistono nel nostro ordinamento specifiche misure cautelari, come l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) e il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima (art. 282-ter c.p.p.), la cui violazione costituisce specifico reato (art. 387-bis c.p.) e appositi obblighi di informazione per la vittima nel corso delle indagini (come l’obbligo, ex art. 299 co. 2 bis e 3 c.p.p., di notificare alla persona offesa le istanze di modifica o revoca delle misure cautelari).
È altresì previsto che la querela, una volta sporta, possa essere rimessa soltanto processualmente e che la denuncia di simili reati abbia, dinnanzi agli organi inquirenti, una sorta di corsia preferenziale (artt. 362 e 370 c.p.p.) ed esistono inoltre forme di audizione protetta per le “vittime vulnerabili” anche maggiorenni (art. 398 c.p.p.).
Infine, rivestono un ruolo fondamentale i centri antiviolenza, che offrono supporto, anche psicologico, al fine di accompagnare le vittime di violenza in tutte le fasi della presa di coscienza, della denuncia e, se occorre, anche in seguito.
Conclusivamente, il nostro ordinamento offre specifici strumenti di tutela e supporto per le vittime di violenza domestica, ma è evidente che, ai fini della definitiva estinzione del fenomeno, occorre un cambio di passo di matrice culturale, ancor prima che giuridica.