La “zabbina” tra gastronomia, tradizioni e antiche usanze ancora oggi attuali

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Volendo ottenere la “zabbina”, al siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggio, “la lacciata”, dal colore del latte, ormai senza caseina, ma che contiene ancora proteine, grasso e lattosio, si aggiunge un poco di altro latte di pecora (10% del contenuto), un pizzico di sale e si rimette nella “quarara”; sotto si riaccende il fuoco vivo e si rimette a cuocere (da qui il vocabolo ri – cotta = cotta due volte) alla temperatura di 80 – 90°.

Durante quest’ultima fase, il siero si mescola lentamente con il “rriminaturi”; attraverso il principio della coagulazione e precipitazione delle proteine, favorito dall’ambiente acido, si forma la “zabbina”, che a poco a poco “acchiana” (affiora), quindi si ritira il bastone, col quale fa il segno della croce, sopra la lacciata. Un altro segno di croce viene fatto col pollice sul coperchio della pentola.  Nel passato, non appena la ricotta saliva in superficie, lu picuraru soleva ripetere, come buon auspicio: “Santu Ramunnu / rricotta fina u funnu; / Santu Minenti,/ rricotta assai e seru nenti>>. Quindi il calderone si scende dal fucularu e si pone per terra sopra una ciambella di fibra intrecciata e si comincia a scodellare col “cuppinu” (il mestolo), generalmente in rame col manico di ferro, raramente in legno), nelle “camelle” (contenitore di alluminio col coperchio) del cliente che attende la fine della lavorazione. Una volta il pastore produceva il frutto direttamente nella sua “mannara” (ovile), in un magazzino o sotto una tettoia.

A Castelvetrano c’era la consuetudine, specialmente la domenica, di mattina presto, di fare la “zabbinata”, con aggiunta di pane nero locale sul posto di produzione. Un rito e una prelibatezza tutta siciliana anche perché sembra che l’origine della ricotta sia per l’appunto in Sicilia. Il vocabolo “zabbina” proviene dal nome arabo del formaggio sia nella forma dialettale giaban che dall’arabo classico jubn.   

La parte di “zabbina” rimasta viene versata e filtrata nelle “camagne” (contenitori piccoli adatti per la ricotta) o nei “vasceddi” (contenitori più grandi), entrambi fatti di giunco intrecciato e lasciata sgocciolare; questa è la ricotta consumata per l’alimentazione. “La mastredda” è un contenitore in legno simile a un grande cassetto dove vi si depositano le vascedde di formaggio o di ricotta per farli scolare. Si può chiamare in certe zone anche “maidderi” per la rassomiglianza alla “maidda” (madia). Nel siero che rimane (scotta), ancora bollente, si immergono i formaggi (tuma), fatti in precedenza, per “squaralli”  (pastorizzarli e renderli più gustosi); quindi il siero si usa per l’alimentazione di maiali o dei cani dei pastori stessi o si butta Una parte della ricotta prodotta, viene salata su entrambi i lati e si conserva per 20-25 giorni, questa è la ricotta salata. La ricotta si può ottenere, oltre che col latte di pecora, anche con il latte di mucca, di capra e di bufala con delle caratteristiche organolettiche  molto diverse. La ricotta di pecora è un ottima fonte di proteine (9,5%), composte da albumine ad alto valore biologico. Quando una pecora non fa più latte si dice che è “strippa”, che quindi bisogna farla coprire, cioè farla accoppiare dal “beccu” (montone), perché, per tornare a fare il latte deve prima partorire. 

 Una ottima razza di pecore è la “faccirussa” di Castelvetrano.  Voglio citare dei proverbi in merito:  -<>; dove: il padre  = il latte; li soru =  la tumma e la ricotta; li frati = il formaggio e il siero.  -<>; dove: virdi = le foglie che si mettono per coprire la cavagna; tunachedda gianna = la cavagna che è fatta di stecche di canna gialla; zza Curanna = zia Corrada.  -<>. Di sotto gorgo (che ribollisce); di sopra la massa caseosa che si forma.  <>.  Il curatolo è il pastore pagato a giornata e butta la schiuma perché non ha interesse, il massaro, che è il proprietario la mescola assieme alla ricotta per un maggior guadagno. 

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