“Pino! Pino!” Ricordo ancora l’affanno disperato col quale quella notte chiamavo mio fratello. Mi ero coricata intorno alle 23 e 30. Il giorno prima, intorno a mezzogiorno, c’era stata una scossa di terremoto. Io e mio fratello avevamo ritenuto che non fosse nulla di grave e che ci saremmo potuti coricare comunque con tranquillità, nonostante molti abitanti del paese avessero voluto rimanere a dormire fuori casa, dentro le loro macchine. Intorno alle mezzanotte e 20 di lunedì 15 gennaio, improvvisamente nel mio letto sento un boato. Come l’abbaiare sinistro e cavernoso di un cane selvaggio e pericoloso che echeggia nella notte. Mi sveglio e non faccio in tempo ad alzarmi che il mio letto inizia a dondolare paurosamente e a spostarsi per la stanza scivolando sul pavimento. “Pino! Pino!” Urlo a mio fratello con voce strozzata dalla paura. “Aspetta! Non ti preoccupare!” dalla stanza attigua alla mia dice mio fratello, cercando di tranquillizzarmi. “Mamma aiuto! “ continuo ad urlare con tutta la mia disperazione in gola.
Nel tempo tra quel boato e il tremare intorno non so muovermi. Rimango paralizzata, come congelata. Intrappolata in quei secondi che sembrano un’eternità. Riesco a mettere i piedi a terra solo quando il movimento cessa. Manca la luce. E’ tutto buio, di un buio di terrore. Annaspo nel silenzio del vuoto alla ricerca dei miei vestiti della sera prima lasciati appesi alla spalliera del letto. Riesco a mala pena a mettermi la gonna e le scarpe. Inizio a camminare a tentoni cercando di ricordare a mente lo spazio intorno. Per fortuna trovo mio fratello. E’ sempre buio, non vediamo nulla. Come avessimo perso la vista.
Scendiamo lentamente, gradino per gradino, la scala in pietra che ci porta giù dal primo piano. Brancoliamo nell’oscurità in una distanza che sembra non finire mai e nel frattempo continuo ad urlare in cerca dell’uscita. Inizio a sentire bussare con forza al portone. Lo apriamo. Sono amici di famiglia corsi a vedere se stavamo bene. Il campanile della chiesa è curvato sopra la canonica! E la scala da dove siamo scesi è piena di buchi! Siamo vivi per miracolo! Una volta fuori corriamo a prendere l’auto, che si trova in un garage più distante, tra la folla del paese che grida e scappa impazzita chi a destra, chi a sinistra. Come formiche spaventate. Dai tetti e dai terrazzi sentiamo il rumore dei massi e calcinacci che cadono dalle case scricchiolanti e pericolanti. Con l’auto ci ritroviamo in una piazzuola fuori dal paese con tanti altri in attesa che albeggi.
Vivevamo in canonica io e mio fratello Giuseppe, sacerdote del paese di Menfi, invece i miei genitori ed i miei fratelli abitavano nel mio paese di origine, Montevago, che si trova a una ventina di chilometri di distanza. “Pino chissà come è preoccupata la mamma! Avrà saputo della scossa e penserà che siamo in pericolo! Dobbiamo andare prima possibile da loro!”. Dico a mio fratello con voce disperata e tremante, pensando che la scossa avesse colpito solo il paese di Menfi.
Il sole comincia a sorgere in quel pezzo brullo di terra che ci ha protetti nella notte. Iniziamo ad incamminarci verso la mia famiglia con la nostra 500. In vicinanza di Montevago, all’altezza di un rettilineo dal quale ogni volta era possibile scorgere il paese con i suoi tetti di tufo calcarenitico e la bella cupola della Chiesa Madre, alzo gli occhi e butto un urlo: “ Pino il paese! Non c’è più il paese!”. Mio fratello frena l’auto annichilito. Restiamo paralizzati a guardare. Davanti ai nostri occhi quella bella immagine di Montevago in lontananza si è trasformata in un mucchio di pietre informi. La cupola della Chiesa Madre è completamente scomparsa. Continuiamo a camminare un altro po’ finche non arriviamo alle porte del paese. A quel punto ci dobbiamo fermare. Le macerie delle case, come picchi di una catena montuosa, ci impediscono di proseguire.
Mi metto ad urlare angosciata con le mani tra i capelli: sul ciglio della strada ci sono dei morti coperti da drappi improvvisati! Mi metto a piangere disperata: “la mamma! i nostri familiari saranno tutti morti!”. Mio fratello non fa in tempo a consolarmi che dalla cima di un cumulo di massi, un tempo edificio, spunta una sagoma familiare. E’ un mio cugino che con voce grossa ci urla: “State buoni! Non vi preoccupate! Sono tutti vivi i tuoi! Vi porto da loro!”.
Mi sento risollevata nonostante intorno a me veda solo macerie alte come palazzi e gente che piange. Ci incamminiamo a piedi attraversando le macerie delle case. Dopo una ventina di minuti vedo in lontananza un’immagine meravigliosa, come una boccata d’aria fresca. E’ mia madre. Mi viene incontro tremante. Ci abbracciamo strette, colme di gioia, piangendo. Entrambe avevamo pensato che non ci saremmo più riviste. Il nostro abbracciarci appare quasi come un miracolo, una resurrezione. Mi guardo intorno, sembra la scena di un film. Purtroppo uno dei protagonisti sono io. Intorno a me gente che piange disperata e che cerca notizie di persone a loro care. Non sanno se sono sopravvissute. Altri che si abbracciano di sollievo dicendo “Sei viva! Sei viva! ”. Gente ferita, sanguinante, fasciata con bende di fortuna.
Nel frattempo le scosse non si fermano, continuano imperterrite senza sosta. Mi sento tremare di paura il cuore ogni qual volta che, a causa di una scossa, le saracinesche dei garage vicini iniziano ad ondeggiare spaventosamente, riproducendo nell’aria un suono metallico da film d’orrore. Non dimenticherò mai quel suono. Sembrava il finimondo. Appoggiati a delle pietre che ci fanno da sedili, in quel pezzo di terreno che è divenuto il nostro rifugio, tra il freddo della neve che va sciogliendosi come le nostre lacrime e i racconti strazianti dei sopravvissuti nella notte della grande scossa siamo intontiti, spaesati. Mi dicono che mentre la gente al buio scappava nell’oscurità si sentivano i lamenti strazianti di dolore di chi era rimasto incastrato sotto le macerie della propria casa e chiedeva disperato di essere aiutato. Nessuno poteva salvarli, perché a causa del buio non sapevano come fare per raggiungerli.
Purtroppo era accaduto che dopo una prima scossa molti erano riusciti a scappare. Ma per il freddo alcuni avevano deciso di entrare un attimo nelle loro case per prendere qualche coperta. Subito dopo era arrivata un’altra scossa e coloro che erano rientrati, seppur per pochi secondi, non sono tornati più indietro. Seppelliti dai muri e dai tetti delle loro case. Siamo così increduli della sciagura che si è abbattuta su di noi che alcuni vagano per le strade con ancora le chiavi delle loro case, ormai distrutte, tra le mani raggrinzite dal gelo. Come se non avessero accettato di aver perso il loro rifugio di intimità e di vita quotidiana.
Rimanemmo soli e abbandonati in quelle condizioni tremende, senza giacigli, né cibo, né acqua, chi in camicia da notte e pigiama, chi a piedi scalzi, senza alcun aiuto ben due dì e due notti. Vagando in quella paralisi di vita, come fantasmi in un luogo fantasma. Al terzo giorno, quando ormai anche le nostre lacrime avevano cessato di scorrere, cominciammo a vedere arrivare le forze dell’ordine, carabinieri e vigili del fuoco, che iniziarono a darci i primi aiuti.
Sono passati 50 anni da quella notte che ha spazzato via la mia casa d’infanzia e che ha messo una linea di confine tra la mia vita prima del sisma e quella dopo il sisma. Ma quando al telegiornale sento di una qualche scossa che ha distrutto un paese rivivo in tutta la mia umanità ferita quella notte terribile. E mi compenetro totalmente nelle persone che stanno vivendo questa immane tragedia. Perché solo chi è stato vittima di un terremoto può capire cosa significa non poter più rivedere amici, parenti, genitori, figli morti in modo così tragico in un posto, come la loro casa, che avrebbe dovuto proteggerli. Perché solo chi ha visto sbriciolarsi come molliche di pane edifici e muri può comprendere cosa significa aver perso quegli scorci, quegli angoli del proprio paese, della propria casa alla quale eri legata. Quei luoghi nei quali giocavi, ridevi, vivevi la tua normalità. Perché il Sisma non trascina con se solo massi e case, ma pezzi di vita. Pezzi di te che non potrai più rivivere guardando al luogo in cui sei nata perché quel luogo non esiste più.
(Testimonianza della professoressa Antonietta Milione, trascritta dalla figlia Maria Antonietta Nocitra)